venerdì 20 settembre 2013

INTERVISTA A PAPA FRANCESCO

CIVILTA' CATTOLICA.
QUADERNO N. 3918 CHE CONTIENE L'INTERVISTA A PAPA FRANCESCO

INTERVISTA A PAPA FRANCESCO        
Antonio Spadaro S.I.


Santa Marta, lunedì 19 agosto ore 9,50


È lunedì 19 agosto. Papa Francesco mi ha dato appuntamento alle 10,00 in Santa Marta. Io però eredito da mio padre la necessità di arrivare sempre in anticipo. Le persone che mi accolgono mi fanno accomodare in una saletta. L’attesa dura poco, e dopo un paio di minuti vengo accompagnato a prendere l’ascensore. Nei due minuti ho avuto il tempo di ricordare quando a Lisbona, in una riunione di direttori di alcune riviste della Compagnia di Gesù, era emersa la proposta di pubblicare tutti insieme un’intervista al Papa. Avevo discusso con gli altri direttori, ipotizzando alcune domande che esprimessero gli interessi di tutti. Esco dall’ascensore e vedo il Papa già sulla porta ad attendermi. Anzi, in realtà, ho avuto la piacevole impressione di non aver varcato porte.

Entro nella sua stanza e il Papa mi fa accomodare su una poltrona. Lui si siede su una sedia più alta e rigida a causa dei suoi problemi alla schiena. L’ambiente è semplice, austero. Lo spazio di lavoro della scrivania è piccolo. Sono colpito dalla essenzialità non solamente degli arredi, ma anche delle cose. Ci sono pochi libri, poche carte, pochi oggetti. Tra questi un’icona di San Francesco, una statua di Nostra Signora di Luján, Patrona dell’Argentina, un crocifisso e una statua di san Giuseppe dormiente, molto simile a quella che avevo visto nella sua camera di rettore e superiore provinciale presso il Colegio Máximo di San Miguel. La spiritualità di Bergoglio non è fatta di «energie armonizzate», come le chiamerebbe lui, ma di volti umani: Cristo, san Francesco, san Giuseppe, Maria.

Il Papa mi accoglie col sorriso che ormai ha fatto più volte il giro del mondo e che apre i cuori. Cominciamo a parlare di tante cose, ma soprattutto del suo viaggio in Brasile. Il Papa lo considera una vera grazia. Gli chiedo se si è riposato. Lui mi dice di sì, che sta bene, ma soprattutto che la Giornata Mondiale della Gioventù è stata per lui un «mistero». Mi dice che non è mai stato abituato a parlare a tanta gente: «Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse». Gli dico che è vero, e che si vede, e che questo colpisce tutti. Si vede che, quando lui è in mezzo alla gente, i suoi occhi in realtà si posano sui singoli. Poi le telecamere proiettano le immagini e tutti possono vederle, ma così lui può sentirsi libero di restare in contatto diretto, almeno oculare, con chi ha davanti a sé. Mi sembra contento di questo, cioè di poter essere quel che è, di non dover alterare il suo modo ordinario di comunicare con gli altri, anche quando ha davanti a sé milioni di persone, come è accaduto sulla spiaggia di Copacabana.

Prima che io accenda il registratore parliamo anche d’altro. Commentando una mia pubblicazione, mi ha detto che i due pensatori francesi contemporanei che predilige sono Henri de Lubac e Michel de Certeau. Gli dico anche qualcosa di più personale. Anche lui mi parla di sé e in particolare della sua elezione al Pontificato. Mi dice che quando ha cominciato a rendersi conto che rischiava di essere eletto, il mercoledì 13 marzo a pranzo, ha sentito scendere su di lui una profonda e inspiegabile pace e consolazione interiore insieme a un buio totale, a una oscurità profonda su tutto il resto. E questi sentimenti lo hanno accompagnato fino all’elezione.

In realtà avrei continuato a parlare così familiarmente per tanto tempo ancora, ma prendo i fogli con alcune domande che avevo annotato e accendo il registratore. Innanzitutto lo ringrazio a nome di tutti i direttori delle riviste dei gesuiti che pubblicheranno questa intervista.

Poco prima dell’udienza che ha concesso ai gesuiti della Civiltà Cattolica il 14 giugno scorso, il Papa mi aveva parlato della sua grande difficoltà a rilasciare interviste. Mi aveva detto che preferisce pensare più che dare risposte di getto in interviste sul momento. Sente che le risposte giuste gli vengono dopo aver dato la prima risposta: «non ho riconosciuto me stesso quando sul volo di ritorno da Rio de Janeiro ho risposto ai giornalisti che mi facevano le domande», mi dice. Ma è vero: in questa intervista più volte il Papa si è sentito libero di interrompere quel che stava dicendo rispondendo a una domanda, per aggiungere qualcosa sulla precedente. Parlare con Papa Francesco in realtà è una sorta di flusso vulcanico di idee che si annodano tra loro. Persino prendere appunti mi dà la spiacevole sensazione di interrompere un dialogo sorgivo. È chiaro che Papa Francesco è abituato più alla conversazione che alla lezione.

Chi è Jorge Mario Bergoglio?

Ho la domanda pronta, ma decido di non seguire lo schema che mi ero prefisso, e gli chiedo un po’ a bruciapelo: «Chi è Jorge Mario Bergoglio?». Il Papa mi fissa in silenzio. Gli chiedo se è una domanda che è lecito porgli… Lui fa cenno di accettare la domanda e mi dice: «non so quale possa essere la definizione più giusta… Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore».

Il Papa continua a riflettere, compreso, come se non si aspettasse quella domanda, come se fosse costretto a una riflessione ulteriore.

«Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo. Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: “sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”». E ripete: «io sono uno che è guardato dal Signore. Il mio motto Miserando atque eligendo l’ho sentito sempre come molto vero per me».

Il motto di Papa Francesco è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi».

E aggiunge: «il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando».

Papa Francesco continua nella sua riflessione e mi dice, facendo un salto di cui sul momento non comprendo il senso: «Io non conosco Roma. Conosco poche cose. Tra queste Santa Maria Maggiore: ci andavo sempre». Rido e gli dico: «lo abbiamo capito tutti molto bene, Santo Padre!». «Ecco, sì — prosegue il Papa —, conosco Santa Maria Maggiore, San Pietro… ma venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio». Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi.

«Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo». E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che andava cercando: «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice». Quindi sussurra: «Peccator sum, sed super misericordia et infinita patientia Domini nostri Jesu Christi confisus et in spiritu penitentiae accepto».

Perché si è fatto gesuita?

Comprendo che questa formula di accettazione è per Papa Francesco anche una carta di identità. Non c’era più altro da aggiungere. Proseguo con quella che avevo scelto come prima domanda: «Santo Padre, che cosa l’ha spinta a scegliere di entrare nella Compagnia di Gesù? Che cosa l’ha colpita dell’Ordine dei gesuiti?». «Io volevo qualcosa di più. Ma non sapevo che cosa. Ero entrato in seminario. I domenicani mi piacevano e avevo amici domenicani. Ma poi ho scelto la Compagnia, che ho conosciuto bene perché il seminario era affidato ai gesuiti. Della Compagnia mi hanno colpito tre cose: la missionarietà, la comunità e la disciplina. Curioso questo, perché io sono un indisciplinato nato, nato, nato. Ma la loro disciplina, il modo di ordinare il tempo, mi ha colpito tanto». «E poi una cosa per me davvero fondamentale è la comunità. Cercavo sempre una comunità. Io non mi vedevo prete solo: ho bisogno di comunità. E lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta: quando sono stato eletto, abitavo per sorteggio nella stanza 207. Questa dove siamo adesso era una camera per gli ospiti. Ho scelto di abitare qui, nella camera 201, perché quando ho preso possesso dell’appartamento pontificio, dentro di me ho sentito distintamente un “no”. L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. È antico, fatto con buon gusto e grande, non lussuoso. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri». Mentre il Papa parla di missione e di comunità, mi vengono in mente tutti quei documenti della Compagnia di Gesù in cui si parla di «comunità per la missione» e li ritrovo nelle sue parole.

Che cosa significa per un gesuita essere Papa?

Voglio proseguire su questa linea e pongo al Papa una domanda a partire dal fatto che lui è il primo gesuita ad essere eletto Vescovo di Roma: «Come legge il servizio alla Chiesa universale che lei è stato chiamato a svolgere alla luce della spiritualità ignaziana? Che cosa significa per un gesuita essere eletto Papa? Quale punto della spiritualità ignaziana la aiuta meglio a vivere il suo ministero?». «Il discernimento», risponde Papa Francesco. «Il discernimento è una delle cose che più ha lavorato interiormente sant’Ignazio. Per lui è uno strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo più da vicino. Mi ha sempre colpito una massima con la quale viene descritta la visione di Ignazio: Non coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est. Ho molto riflettuto su questa frase in ordine al governo, ad essere superiore: non essere ristretti dallo spazio più grande, ma essere in grado di stare nello spazio più ristretto. Questa virtù del grande e del piccolo è la magnanimità, che dalla posizione in cui siamo ci fa guardare sempre l’orizzonte. È fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. È valorizzare le cose piccole all’interno di grandi orizzonti, quelli del Regno di Dio». «Questa massima offre i parametri per assumere una posizione corretta per il discernimento, per sentire le cose di Dio a partire dal suo “punto di vista”. Per sant’Ignazio i grandi princìpi devono essere incarnati nelle circostanze di luogo, di tempo e di persone. A suo modo Giovanni XXIII si mise in questa posizione di governo quando ripeté la massima Omnia videre, multa dissimulare, pauca corrigere, perché, pur vedendo omnia, la dimensione massima, riteneva di agire su pauca, su una dimensione minima. Si possono avere grandi progetti e realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli che risultano più efficaci di quelli forti, come dice anche san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi». «Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio, pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare». «Ecco, invece diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa. Diffido sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte».

La Compagnia di Gesù

Il discernimento è dunque un pilastro della spiritualità del Papa. In questo si esprime in maniera peculiare la sua identità gesuitica. Gli chiedo quindi come pensa che la Compagnia di Gesù possa servire la Chiesa oggi, quale sia la sua peculiarità, ma anche gli eventuali rischi che corre. «La Compagnia è un’istituzione in tensione, sempre radicalmente in tensione. Il gesuita è un decentrato. La Compagnia è in se stessa decentrata: il suo centro è Cristo e la sua Chiesa. Dunque: se la Compagnia tiene Cristo e la Chiesa al centro, ha due punti fondamentali di riferimento del suo equilibrio per vivere in periferia. Se invece guarda troppo a se stessa, mette sé al centro come struttura ben solida, molto ben “armata”, allora corre il pericolo di sentirsi sicura e sufficiente. La Compagnia deve avere sempre davanti a sé il Deus semper maior, la ricerca della gloria di Dio sempre maggiore, la Chiesa Vera Sposa di Cristo nostro Signore, Cristo Re che ci conquista e al quale offriamo tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica, anche se siamo vasi di argilla, inadeguati. Questa tensione ci porta continuamente fuori da noi stessi. Lo strumento che rende veramente forte la Compagnia decentrata è poi quello, insieme paterno e fraterno, del “rendiconto di coscienza”, proprio perché la aiuta a uscire meglio in missione». Qui il Papa si riferisce a un punto specifico delle Costituzioni della Compagnia di Gesù nel quale si legge che il gesuita deve «manifestare la sua coscienza», cioè la situazione interiore che vive, in modo che il superiore possa essere più consapevole e accorto nell’inviare una persona alla sua missione. «Ma è difficile parlare della Compagnia — prosegue Papa Francesco —. Quando si esplicita troppo, si corre il rischio di equivocare. La Compagnia si può dire solamente in forma narrativa. Solamente nella narrazione si può fare discernimento, non nella esplicazione filosofica o teologica, nelle quali invece si può discutere. Lo stile della Compagnia non è quello della discussione, ma quello del discernimento, che ovviamente suppone la discussione nel processo. L’aura mistica non definisce mai i suoi bordi, non completa il pensiero. Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto. Ci sono state epoche nella Compagnia nelle quali si è vissuto un pensiero chiuso, rigido, più istruttivo-ascetico che mistico: questa deformazione ha generato l’Epitome Instituti». Qui il Papa si sta riferendo a una specie di riassunto pratico in uso nella Compagnia e riformulato nel XX secolo, che venne visto come un sostitutivo delle Costituzioni. La formazione dei gesuiti sulla Compagnia per un certo tempo fu plasmata da questo testo, a tal punto che qualcuno non lesse mai le Costituzioni, che invece sono il testo fondativo. Per il Papa, durante questo periodo nella Compagnia le regole hanno rischiato di sopraffare lo spirito, e ha vinto la tentazione di esplicitare e dichiarare troppo il carisma.

Prosegue: «No, il gesuita pensa sempre, in continuazione, guardando l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro. Questa è la sua vera forza. E questo spinge la Compagnia ad essere in ricerca, creativa, generosa. Dunque, oggi più che mai, deve essere contemplativa nell’azione; deve vivere una vicinanza profonda a tutta la Chiesa, intesa come “popolo di Dio” e “santa madre Chiesa gerarchica”. Questo richiede molta umiltà, sacrificio, coraggio, specialmente quando si vivono incomprensioni o si è oggetto di equivoci e calunnie, ma è l’atteggiamento più fecondo. Pensiamo alle tensioni del passato sui riti cinesi, sui riti malabarici, nelle riduzioni in Paraguay». «Io stesso sono testimone di incomprensioni e problemi che la Compagnia ha vissuto anche di recente. Tra queste vi furono i tempi difficili di quando si trattò della questione di estendere il “quarto voto” di obbedienza al Papa a tutti i gesuiti. Quello che a me dava sicurezza al tempo di padre Arrupe era il fatto che lui fosse un uomo di preghiera, un uomo che passava molto tempo in preghiera. Lo ricordo quando pregava seduto per terra, come fanno i giapponesi. Per questo lui aveva l’atteggiamento giusto e prese le decisioni corrette».

Il modello: Pietro Favre, «prete riformato»

A questo punto mi chiedo se tra i gesuiti ci siano figure, dalle origini della Compagnia ad oggi, che lo abbiano colpito in maniera particolare. E così chiedo al Pontefice se ci sono, quali sono e perché. Il Papa comincia a citarmi Ignazio e Francesco Saverio, ma poi si sofferma su una figura che i gesuiti conoscono, ma che certo non è molto nota in generale: il beato Pietro Favre (1506- 1546), savoiardo. È uno dei primi compagni di sant’Ignazio, anzi il primo, con il quale egli condivideva la stanza quando i due erano studenti alla Sorbona. Il terzo nella stessa stanza era Francesco Saverio. Pio IX lo dichiarò beato il 5 settembre 1872, ed è in corso il processo di canonizzazione. Mi cita una edizione del suo Memoriale che lui fece curare da due gesuiti specialisti, Miguel A. Fiorito e Jaime H. Amadeo, quando era superiore provinciale. Una edizione che al Papa piace particolarmente è quella a cura di Michel de Certeau. Gli chiedo quindi perché è colpito proprio dal Favre, quali tratti della sua figura lo impressionano. «Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce…». Mentre Papa Francesco fa questo elenco di caratteristiche personali del suo gesuita preferito, comprendo quanto questa figura sia stata davvero per lui un modello di vita. Michel de Certeau definisce Favre semplicemente il «prete riformato», per il quale l’esperienza interiore, l’espressione dogmatica e la riforma strutturale sono intimamente indissociabili. Mi sembra di capire, dunque, che Papa Francesco si ispiri proprio a questo genere di riforma. Quindi il Papa prosegue con una riflessione sul vero volto del fundador. «Ignazio è un mistico, non un asceta. Mi arrabbio molto quando sento dire che gli Esercizi spirituali sono ignaziani solamente perché sono fatti in silenzio. In realtà gli Esercizi possono essere perfettamente ignaziani anche nella vita corrente e senza il silenzio. Quella che sottolinea l’ascetismo, il silenzio e la penitenza è una corrente deformata che si è pure diffusa nella Compagnia, specialmente in ambito spagnolo. Io sono vicino invece alla corrente mistica, quella di Louis Lallemant e di Jean-Joseph Surin. E Favre era un mistico».

L’esperienza di governo

Quale tipo di esperienza di governo può far maturare la formazione avuta da padre Bergoglio, che è stato prima superiore e poi superiore provinciale nella Compagnia di Gesù? Lo stile di governo della Compagnia implica la decisione da parte del superiore, ma anche il confronto con i suoi «consultori». E così chiedo al Papa: «Pensa che la sua esperienza di governo del passato possa servire alla sua attuale azione di governo della Chiesa universale?». Papa Francesco dopo una breve pausa di riflessione si fa serio, ma molto sereno. «Nella mia esperienza di superiore in Compagnia, a dire il vero, io non mi sono sempre comportato così, cioè facendo le necessarie consultazioni. E questa non è stata una cosa buona. Il mio governo come gesuita all’inizio aveva molti difetti. Quello era un tempo difficile per la Compagnia: era scomparsa una intera generazione di gesuiti. Per questo mi son trovato Provinciale ancora molto giovane. Avevo 36 anni: una pazzia. Bisognava affrontare situazioni difficili, e io prendevo le mie decisioni in maniera brusca e personalista. Sì, devo aggiungere però una cosa: quando affido una cosa a una persona, mi fido totalmente di quella persona. Deve fare un errore davvero grande perché io la riprenda. Ma, nonostante questo, alla fine la gente si stanca dell’autoritarismo. Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova. Ecco, no, non sono stato certo come la Beata Imelda, ma non sono mai stato di destra. È stato il mio modo autoritario di prendere le decisioni a creare problemi». «Dico queste cose come una esperienza di vita e per far capire quali sono i pericoli. Col tempo ho imparato molte cose. Il Signore ha permesso questa pedagogia di governo anche attraverso i miei difetti e i miei peccati. Così da arcivescovo di Buenos Aires ogni quindici giorni facevo una riunione con i sei vescovi ausiliari, varie volte l’anno col Consiglio presbiterale. Si ponevano domande e si apriva lo spazio alla discussione. Questo mi ha molto aiutato a prendere le decisioni migliori. E adesso sento alcune persone che mi dicono: “non si consulti troppo, e decida”. Credo invece che la consultazione sia molto importante. I Concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del Conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale».

«Sentire con la Chiesa»

Rimango sul tema della Chiesa e provo a capire che cosa significhi esattamente per Papa Francesco il «sentire con la Chiesa» di cui scrive sant’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali. Il Papa risponde senza esitazione partendo da un’immagine. «L’immagine della Chiesa che mi piace è quella del santo popolo fedele di Dio. È la definizione che uso spesso, ed è poi quella della Lumen gentium al numero 12. L’appartenenza a un popolo ha un forte valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Dio entra in questa dinamica popolare ». «Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina. Ecco, questo io intendo oggi come il “sentire con la Chiesa” di cui parla sant’Ignazio. Quando il dialogo tra la gente e i Vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi». «È come con Maria: se si vuol sapere chi è, si chiede ai teologi; se si vuol sapere come la si ama, bisogna chiederlo al popolo. A sua volta, Maria amò Gesù con cuore di popolo, come leggiamo nel Magnificat. Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del “sentire con la Chiesa” sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica». E il Papa, dopo un momento di pausa, precisa in maniera secca, per evitare fraintendimenti: «E, ovviamente, bisogna star bene attenti a non pensare che questa infallibilitas di tutti i fedeli di cui sto parlando alla luce del Concilio sia una forma di populismo. No: è l’esperienza della “santa madre Chiesa gerarchica”, come la chiamava sant’Ignazio, della Chiesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme. La Chiesa è la totalità del popolo di Dio». «Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana. C’è una “classe media della santità” di cui tutti possiamo far parte, quella che di cui parla Malègue». Il Papa si sta riferendo a Joseph Malègue, uno scrittore francese a lui caro, nato nel 1876 e morto nel 1940. In particolare alla sua trilogia incompiuta Pierres noires. Les Classes moyennes du Salut. Alcuni critici francesi lo definirono «il Proust cattolico». «Io vedo la santità — prosegue il Papa — nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con coraggio». «Questa Chiesa con la quale dobbiamo “sentire” è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità. E la Chiesa è Madre — prosegue —. La Chiesa è feconda, deve esserlo. Vedi, quando io mi accorgo di comportamenti negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che mi viene in mente è: “ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”. Non sono né padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita. Invece, per esempio, quando leggo la vita dei missionari salesiani che sono andati in Patagonia, leggo una storia di vita, di fecondità». «Un altro esempio di questi giorni: ho visto che è stata molto ripresa dai giornali la telefonata che ho fatto a un ragazzo che mi aveva scritto una lettera. Io gli ho telefonato perché quella lettera era tanto bella, tanto semplice. Per me questo è stato un atto di fecondità. Mi sono reso conto che è un giovane che sta crescendo, ha riconosciuto un padre, e così gli dice qualcosa della sua vita. Il padre non può dire “me ne infischio”. Questa fecondità mi fa tanto bene».

Chiese giovani e Chiese anticheRimango sul tema della Chiesa, ponendo al Papa una domanda anche alla luce della recente Giornata Mondiale della Gioventù: «Questo grande evento ha acceso ulteriormente i riflettori sui giovani, ma anche su quei “polmoni spirituali” che sono le Chiese di più recente istituzione. Quali le speranze per la Chiesa universale che le sembrano provenire da queste Chiese?». «Le Chiese giovani sviluppano una sintesi di fede, cultura e vita in divenire, e dunque diversa da quella sviluppata dalle Chiese più antiche. Per me, il rapporto tra le Chiese di più antica istituzione e quelle più recenti è simile al rapporto tra giovani e anziani in una società: costruiscono il futuro, ma gli uni con la loro forza e gli altri con la loro saggezza. Si corrono sempre dei rischi, ovviamente; le Chiese più giovani rischiano di sentirsi autosufficienti, quelle più antiche rischiano di voler imporre alle più giovani i loro modelli culturali. Ma il futuro si costruisce insieme».

La Chiesa? Un ospedale da campo…

Papa Benedetto XVI, annunciando la sua rinuncia al Pontificato, ha ritratto il mondo di oggi come soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede che richiedono vigore sia del corpo, sia dell’anima. Chiedo al Papa, anche alla luce di ciò che mi ha appena detto: «Di che cosa la Chiesa ha più bisogno in questo momento storico? Sono necessarie riforme? Quali sono i suoi desideri sulla Chiesa dei prossimi anni? Quale Chiesa “sogna”?». Papa Francesco, cogliendo l’incipit della mia domanda, comincia col dire: «Papa Benedetto ha fatto un atto di santità, di grandezza, di umiltà. È un uomo di Dio», dimostrando un grande affetto e una enorme stima per il suo predecessore. «Io vedo con chiarezza — prosegue — che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».

«La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia. Il confessore, ad esempio, corre sempre il pericolo di essere o troppo rigorista o troppo lasso. Nessuno dei due è misericordioso, perché nessuno dei due si fa veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché lo rimette al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente “questo non è peccato” o cose simili. Le persone vanno accompagnate, le ferite vanno curate».

«Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I Vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade». «Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio».

Raccolgo ciò che il Santo Padre sta dicendo e faccio riferimento al fatto che ci sono cristiani che vivono in situazioni non regolari per la Chiesa o comunque in situazioni complesse, cristiani che, in un modo o nell’altro, vivono ferite aperte. Penso a divorziati risposati, coppie omosessuali, altre situazioni difficili. Come fare una pastorale missionaria in questi casi? Su che cosa far leva? Il Papa fa cenno di aver compreso che cosa intendo dire e risponde.

«Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile. Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi con un’altra domanda: “Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?”. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero dell’uomo. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta». «Questa è anche la grandezza della Confessione: il fatto di valutare caso per caso, e di poter discernere qual è la cosa migliore da fare per una persona che cerca Dio e la sua grazia. Il confessionale non è una sala di tortura, ma il luogo della misericordia nel quale il Signore ci stimola a fare meglio che possiamo. Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?».

«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione». «Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali».

«Dico questo anche pensando alla predicazione e ai contenuti della nostra predicazione. Una bella omelia, una vera omelia, deve cominciare con il primo annuncio, con l’annuncio della salvezza. Non c’è niente di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Poi si deve fare una catechesi. Infine si può tirare anche una conseguenza morale. Ma l’annuncio dell’amore salvifico di Dio è previo all’obbligazione morale e religiosa. Oggi a volte sembra che prevalga l’ordine inverso. L’omelia è la pietra di paragone per calibrare la vicinanza e la capacità di incontro di un pastore con il suo popolo, perché chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dove è vivo e ardente il desiderio di Dio. Il messaggio evangelico non può essere ridotto dunque ad alcuni suoi aspetti che, seppure importanti, da soli non manifestano il cuore dell’insegnamento di Gesù».

Il primo Papa religioso dopo 182 anni…

Papa Francesco è il primo Pontefice a provenire da un Ordine religioso dopo il camaldolese Gregorio XVI, eletto nel 1831, 182 anni fa. Chiedo dunque: «Qual è oggi nella Chiesa il posto specifico dei religiosi e delle religiose?». «I religiosi sono profeti. Sono coloro che hanno scelto una sequela di Gesù che imita la sua vita con l’obbedienza al Padre, la povertà, la vita di comunità e la castità. In questo senso i voti non possono finire per essere caricature, altrimenti, ad esempio, la vita di comunità diventa un inferno e la castità un modo di vivere da zitelloni. Il voto di castità deve essere un voto di fecondità. Nella Chiesa i religiosi sono chiamati in particolare ad essere profeti che testimoniano come Gesù è vissuto su questa terra, e che annunciano come il Regno di Dio sarà nella sua perfezione. Mai un religioso deve rinunciare alla profezia. Questo non significa contrapporsi alla parte gerarchica della Chiesa, anche se la funzione profetica e la struttura gerarchica non coincidono. Sto parlando di una proposta sempre positiva, che però non deve essere timorosa. Pensiamo a ciò che hanno fatto tanti grandi santi monaci, religiosi e religiose, sin da sant’Antonio abate. Essere profeti a volte può significare fare ruido, non so come dire… La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”. Ma in realtà il suo carisma è quello di essere lievito: la profezia annuncia lo spirito del Vangelo».

Dicasteri romani, sinodalità, ecumenismo

Considerando il riferimento alla gerarchia, chiedo a questo punto al Papa: «Che cosa pensa dei dicasteri romani?». «I dicasteri romani sono al servizio del Papa e dei Vescovi: devono aiutare sia le Chiese particolari sia le Conferenze episcopali. Sono meccanismi di aiuto. In alcuni casi, quando non sono bene intesi, invece, corrono il rischio di diventare organismi di censura. È impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a Roma. Credo che i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano meglio sul posto. I dicasteri romani sono mediatori, non intermediari o gestori». Ricordo al Papa che il 29 giugno scorso, durante la cerimonia della benedizione e dell’imposizione del pallio a 34 arcivescovi metropoliti, aveva affermato «la strada della sinodalità» come la strada che porta la Chiesa unita a «crescere in armonia con il servizio del primato». Ecco la mia domanda, dunque: «Come conciliare in armonia primato petrino e sinodalità? Quali strade sono praticabili, anche in prospettiva ecumenica?».

«Si deve camminare insieme: la gente, i Vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo. Nelle relazioni ecumeniche questo è importante: non solo conoscersi meglio, ma anche riconoscere ciò che lo Spirito ha seminato negli altri come un dono anche per noi. Voglio proseguire la riflessione su come esercitare il primato petrino, già iniziata nel 2007 dalla Commissione Mista, e che ha portato alla firma del Documento di Ravenna. Bisogna continuare su questa strada». Cerco di capire come il Papa veda il futuro dell’unità della Chiesa. Mi risponde: «dobbiamo camminare uniti nelle differenze: non c’è altra strada per unirci. Questa è la strada di Gesù».

 E il ruolo della donna nella Chiesa? Il Papa ha più volte fatto riferimento a questo tema in varie occasioni. In una intervista aveva affermato che la presenza femminile nella Chiesa non è emersa più di tanto, perché la tentazione del maschilismo non ha lasciato spazio per rendere visibile il ruolo che spetta alle donne nella comunità. Ha ripreso la questione durante il viaggio di ritorno da Rio de Janeiro affermando che non è stata fatta ancora una profonda teologia della donna. Allora, chiedo: «Quale deve essere il ruolo della donna nella Chiesa? Come fare per renderlo oggi più visibile?». «È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa».

Il Concilio Vaticano II

«Che cosa ha realizzato il Concilio Vaticano II? Che cosa è stato?», gli chiedo alla luce delle sue affermazioni precedenti, immaginando una risposta lunga e articolata. Ho invece come l’impressione che il Papa semplicemente consideri il Concilio come un fatto talmente indiscutibile che non vale la pena parlarne troppo a lungo, come per doverne ribadire l’importanza.

«Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile. Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione».

Cercare e trovare Dio in tutte le cose

Il discorso di Papa Francesco è molto sbilanciato sulle sfide dell’oggi. Anni fa aveva scritto che per vedere la realtà è necessario uno sguardo di fede, altrimenti si vede una realtà a pezzi, frammentata. È questo anche uno dei temi dell’enciclica Lumen fidei. Ho in mente anche alcuni passaggi dei discorsi di Papa Francesco durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro. Glieli cito: «Dio è reale se si manifesta nell’oggi»; «Dio sta da tutte le parti». Sono frasi che riecheggiano l’espressione ignaziana «cercare e trovare Dio in tutte le cose». Chiedo dunque al Papa: «Santità, come si fa a cercare e trovare Dio in tutte le cose?».

«Quel che ho detto a Rio ha un valore temporale. C’è infatti la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi».

«Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa». «Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo, quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avverita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni. Il segno che si è in questo buon cammino è quello della pace profonda, della consolazione spirituale, dell’amore di Dio, e di vedere tutte le cose in Dio».

Certezza ed errori

«Se l’incontro con Dio in tutte le cose non è un “eureka empirico” — dico al Papa — e se dunque si tratta di un cammino che legge la storia, si possono anche commettere errori…».

«Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale». «Il rischio nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la volontà di esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: “Dio è qui”. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre. E spesso si cerca a tentoni, come si legge nella Bibbia. È questa l’esperienza dei grandi Padri della fede, che sono il nostro modello. Bisogna rileggere il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei. Abramo è partito senza sapere dove andava, per fede. Tutti i nostri antenati della fede morirono vedendo i beni promessi, ma da lontano… La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è tutto scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere… Si deve entrare nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio».

«Perché Dio sta prima, Dio sta prima sempre, Dio primerea. Dio è un po’ come il fiore del mandorlo della tua Sicilia, Antonio, che fiorisce sempre per primo. Lo leggiamo nei Profeti. Dunque, Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E a questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. È relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è fondamentale».

«Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio».

Dobbiamo essere ottimisti?

Queste parole del Papa mi ricordano alcune sue riflessioni del passato, nelle quali l’allora cardinal Bergoglio ha scritto che Dio vive già nella città, vitalmente mescolato in mezzo a tutti e unito a ciascuno. È un altro modo, a mio avviso, per dire ciò che sant’Ignazio scrisse negli Esercizi Spirituali, cioè che Dio «lavora e opera» nel nostro mondo. Gli chiedo dunque: «dobbiamo essere ottimisti? Quali sono i segni di speranza nel mondo d’oggi? Come si fa ad essere ottimisti in un mondo in crisi?». «A me non piace usare la parola “ottimismo”, perché dice un atteggiamento psicologico. Mi piace invece usare la parola “speranza” secondo ciò che si legge nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei che citavo prima. I Padri hanno continuato a camminare, attraversando grandi difficoltà. E la speranza non delude, come leggiamo nella Lettera ai Romani. Pensa invece al primo indovinello della Turandot di Puccini», mi chiede il Papa. Sul momento ho ricordato un po’ a memoria i versi di quell’enigma della principessa che ha come risposta la speranza: Nella cupa notte vola un fantasma iridescente. / Sale e spiega l’ale / sulla nera infinita umanità. / Tutto il mondo l’invoca / e tutto il mondo l’implora. / Ma il fantasma sparisce con l’aurora / per rinascere nel cuore. / Ed ogni notte nasce / ed ogni giorno muore! Versi che rivelano il desiderio di una speranza che qui però è fantasma iridescente e che sparisce con l’aurora.

«Ecco — prosegue Papa Francesco —, la speranza cristiana non è un fantasma e non inganna. È una virtù teologale e dunque, in definitiva, un regalo di Dio che non si può ridurre all’ottimismo, che è solamente umano. Dio non defrauda la speranza, non può rinnegare se stesso. Dio è tutto promessa».

L’arte e la creativitàRimango colpito dalla citazione della Turandot per parlare del mistero della speranza. Vorrei capire meglio quali sono i riferimenti artistici e letterari di Papa Francesco. Gli ricordo che nel 2006 aveva detto che i grandi artisti sanno presentare con bellezza le realtà tragiche e dolorose della vita. Chiedo dunque quali siano gli artisti e gli scrittori che preferisce; se c’è qualcosa che li accomuna… «Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il compleanno di sua nonna che è di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. È quella che si chiude con il verso Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso. Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì Hölderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro I Promessi Sposi tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di questo libro: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti…”. Anche Gerard Manley Hopkins mi è piaciuto tanto».

«In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano. Ma anche Chagall con la sua Crocifissione bianca…».

«In musica amo Mozart, ovviamente. Quell’Et Incarnatus est della sua Missa in Do è insuperabile: ti porta a Dio! Amo Mozart eseguito da Clara Haskil​. Mozart mi riempie: non posso pensarlo, devo sentirlo. Beethoven mi piace ascoltarlo, ma prometeicamente. E l’interprete più prometeico per me è Furtwängler. E poi le Passioni di Bach. Il brano di Bach che amo tanto è l’Erbarme Dich, il pianto di Pietro della Passione secondo Matteo. Sublime. Poi, a un livello diverso, non intimo allo stesso modo, amo Wagner. Mi piace ascoltarlo, ma non sempre. La Tetralogia dell’Anello eseguita da Furtwängler alla Scala nel ’50 è la cosa per me migliore. Ma anche il Parsifal eseguito nel ’62 da Knappertsbusch».

«Dovremmo anche parlare del cinema. La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho molto amato è Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori che ci portavano spesso al cinema».

«Comunque in generale io amo gli artisti tragici, specialmente i più classici. C’è una bella definizione che Cervantes pone sulla bocca del baccelliere Carrasco per fare l’elogio della storia di Don Chisciotte: “i fanciulli l’hanno tra le mani, i giovani la leggono, gli adulti la intendono, i vecchi ne fanno l’elogio”. Questa per me può essere una buona definizione per i classici».

Mi rendo conto di essere assorbito da questi suoi riferimenti, e di avere il desiderio di entrare nella sua vita entrando per la porta delle sue scelte artistiche. Sarebbe un percorso, immagino lungo, da fare. E includerebbe anche il cinema, dal neorealismo italiano a Il pranzo di Babette. Mi vengono in mente altri autori e altre opere che lui ha citato in altre occasioni, anche minori o meno noti o locali: dal Martín Fierro di José Hernández alla poesia di Nino Costa, a Il grande esodo di Luigi Orsenigo. Ma penso anche a Joseph Malègue e José María Pemán. E ovviamente a Dante e Borges, ma anche a Leopoldo Marechal, l’autore di Adán Buenosayres, El Banquete de Severo Arcángelo e Megafón o la guerra. Penso in particolare proprio a Borges, perché di lui Bergoglio, ventottenne professore di Letteratura a Santa Fé presso il Colegio de la Inmaculada Concepción, ebbe una conoscenza diretta. Bergoglio insegnava agli ultimi due anni del Liceo e avviò i suoi ragazzi alla scrittura creativa. Ho avuto una esperienza simile alla sua, quando avevo la sua età, presso l’Istituto Massimo di Roma, fondando BombaCarta, e gliela racconto. Alla fine chiedo al Papa di raccontare la sua esperienza.

«È stata una cosa un po’ rischiosa — risponde —. Dovevo fare in modo che i miei alunni studiassero El Cid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di leggere García Lorca. Allora ho deciso che avrebbero studiato El Cid a casa, e durante le lezioni io avrei trattato gli autori che piacevano di più ai ragazzi. Ovviamente i giovani volevano leggere le opere letterarie più “piccanti”, contemporanee come La casada infiel, o classiche come La Celestina di Fernando de Rojas. Ma leggendo queste cose che li attiravano sul momento, prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e passavano ad altri autori. E per me è stata una grande esperienza. Ho completato il programma, ma in maniera destrutturata, cioè non ordinata secondo ciò che era previsto, ma secondo un ordine che veniva naturale nella lettura degli autori. E questa modalità mi corrispondeva molto: non amavo fare una programmazione rigida, ma semmai sapere dove arrivare più o meno. Allora ho cominciato anche a farli scrivere. Alla fine ho deciso di far leggere a Borges due racconti scritti dai miei ragazzi. Conoscevo la sua segretaria, che era stata la mia professoressa di pianoforte. A Borges piacquero moltissimo. E allora lui propose di scrivere l’introduzione a una raccolta». «Allora, Padre Santo, per la vita di una persona la creatività è importante?», gli chiedo. Lui ride e mi risponde: «Per un gesuita è estremamente importante! Un gesuita deve essere creativo».

Frontiere e laboratori

Creatività, dunque: per un gesuita è importante. Papa Francesco, ricevendo i Padri e i collaboratori della Civiltà Cattolica, aveva scandito una triade di altre caratteristiche importanti per il lavoro culturale dei gesuiti. Ritorno alla memoria a quel giorno, il 14 giugno scorso. Ricordo che allora, nel colloquio previo all’incontro con tutto il nostro gruppo, mi aveva preannunciato la triade: dialogo, discernimento, frontiera. E aveva insistito particolarmente sull’ultimo punto, citandomi Paolo VI, che in un famoso discorso aveva detto dei gesuiti: «Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi sono i gesuiti».

Chiedo a Papa Francesco qualche chiarimento: «Ci ha chiesto di stare attenti a non cadere nella “tentazione di addomesticare le frontiere: si deve andare verso le frontiere e non portare le frontiere a casa per verniciarle un po’ e addomesticarle”. A che cosa si riferiva? Che cosa intendeva dirci esattamente? Questa intervista è stata concordata tra un gruppo di riviste dirette dalla Compagnia di Gesù: quale invito desidera esprimere loro? Quali devono essere le loro priorità?».

«Le tre parole chiave che ho rivolto alla Civiltà Cattolica possono essere estese a tutte le riviste della Compagnia, magari con accentuazioni diverse sulla base della loro natura e dei loro obiettivi. Quando insisto sulla frontiera, in maniera particolare mi riferisco alla necessità per l’uomo che fa cultura di essere inserito nel contesto nel quale opera e sul quale riflette. C’è sempre in agguato il pericolo di vivere in un laboratorio. La nostra non è una fede-laboratorio, ma una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci».

Chiedo al Papa se può fare qualche esempio sulla base della sua esperienza personale. «Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e capire il problema dall’interno e studiarlo. C’è una lettera geniale del padre Arrupe ai Centros de Investigación y Acción Social (CIAS) sulla povertà, nella quale dice chiaramente che non si può parlare di povertà se non la si sperimenta con una inserzione diretta nei luoghi nei quali la si vive. Questa parola “inserzione” è pericolosa perché alcuni religiosi l’hanno presa come una moda, e sono accaduti dei disastri per mancanza di discernimento. Ma è davvero importante».

«E le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vivono nelle frontiere. Io sono vivo grazie a una di loro. Quando ho avuto il problema al polmone in ospedale, il medico mi diede penicillina e strectomicina in certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva fiuto, sapeva cosa fare, perché stava con i malati tutto il giorno. Il medico, che era davvero bravo, viveva nel suo laboratorio, la suora viveva nella frontiera e dialogava con la frontiera tutti i giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza».

Come l’uomo comprende se stesso

Chiedo allora al Papa se questo valga e come anche per una frontiera culturale importante che è quella della sfida antropologica. L’antropologia a cui la Chiesa ha tradizionalmente fatto riferimento e il linguaggio con la quale l’ha espressa restano un riferimento solido, frutto di saggezza ed esperienza secolare. Tuttavia l’uomo a cui la Chiesa si rivolge non sembra più comprenderli o considerarli sufficienti. Comincio a ragionare sul fatto che l’uomo si sta interpretando in maniera diversa dal passato, con categorie diverse. E questo anche a causa dei grandi cambiamenti nella società e di un più ampio studio di se stesso…

Il Papa a questo punto si alza e va a prendere sulla sua scrivania il Breviario. È un Breviario in latino, ormai logoro per l’uso. E lo apre all’Ufficio delle Letture della Feria sexta, cioè venerdì, della XXVII settimana. Mi legge un passaggio tratto dal Commonitórium Primum di san Vincenzo di Lerins: ita étiam christiánae religiónis dogma sequátur has decet proféctuum leges, ut annis scílicet consolidétur, dilatétur témpore, sublimétur aetáte («Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età»).

E così il Papa prosegue: «San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del depositum fidei, che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce. Pensiamo a quando la schiavitù era ammessa o la pena di morte era ammessa senza alcun problema. Dunque si cresce nella comprensione della verità. Gli esegeti e i teologi aiutano la Chiesa a maturare il proprio giudizio. Anche le altre scienze e la loro evoluzione aiutano la Chiesa in questa crescita nella comprensione. Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata».

«Del resto, in ogni epoca l’uomo cerca di comprendere ed esprimere meglio se stesso. E dunque l’uomo col tempo cambia il modo di percepire se stesso: una cosa è l’uomo che si esprime scolpendo la Nike di Samotracia, un’altra quella del Caravaggio, un’altra quella di Chagall e ancora un’altra quella di Dalí. Anche le forme di espressione della verità possono essere multiformi, e questo anzi è necessario per la trasmissione del messaggio evangelico nel suo significato immutabile».

«L’uomo è alla ricerca di se stesso, e ovviamente in questa ricerca può anche commettere errori. La Chiesa ha vissuto tempi di genialità, come ad esempio quello del tomismo. Ma vive anche tempi di decadenza del pensiero. Ad esempio: non dobbiamo confondere la genialità del tomismo con il tomismo decadente. Io, purtroppo, ho studiato la filosofia con manuali di tomismo decadente. Nel pensare l’uomo, dunque, la Chiesa dovrebbe tendere alla genialità, non alla decadenza».

«Quando una espressione del pensiero non è valida? Quando il pensiero perde di vista l’umano o quando addirittura ha paura dell’umano o si lascia ingannare su se stesso. È il pensiero ingannato che può essere raffigurato come Ulisse davanti al canto delle sirene, o come Tannhäuser, circondato in un’orgia da satiri e baccanti, o come Parsifal, nel secondo atto dell’opera wagneriana, alla reggia di Klingsor. Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento».

Pregare

Pongo al Papa un’ultima domanda sul suo modo di pregare preferito. «Prego l’Ufficio ogni mattina. Mi piace pregare con i Salmi. Poi, a seguire, celebro la Messa. Prego il Rosario. Ciò che davvero preferisco è l’Adorazione serale, anche quando mi distraggo e penso ad altro o addirittura mi addormento pregando. La sera quindi, tra le sette e le otto, sto davanti al Santissimo per un’ora in adorazione. Ma anche prego mentalmente quando aspetto dal dentista o in altri momenti della giornata».

«E la preghiera è per me sempre una preghiera “memoriosa”, piena di memoria, di ricordi, anche memoria della mia storia o di quello che il Signore ha fatto nella sua Chiesa o in una parrocchia particolare. Per me è la memoria di cui sant’Ignazio parla nella Prima Settimana degli Esercizi nell’incontro misericordioso con Cristo Crocifisso. E mi chiedo: “Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?”. È la memoria di cui Ignazio parla anche nella Contemplatio ad amorem, quando chiede di richiamare alla memoria i benefici ricevuti. Ma soprattutto io so anche che il Signore ha memoria di me. Io posso dimenticarmi di Lui, ma io so che Lui mai, mai si dimentica di me. La memoria fonda radicalmente il cuore di un gesuita: è la memoria della grazia, la memoria di cui si parla nel Deuteronomio, la memoria delle opere di Dio che sono alla base dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. È questa memoria che mi fa figlio e che mi fa essere anche padre».

* * *

Mi rendo conto che proseguirei ancora a lungo questo dialogo, ma so che, come il Papa disse una volta, non bisogna «maltrattare i limiti». Complessivamente abbiamo dialogato per oltre sei ore, nel corso di tre appuntamenti il 19, il 23 e il 29 agosto. Qui ho preferito articolare il discorso senza segnalare gli stacchi per non perdere la continuità. La nostra è stata in realtà una conversazione più che un’intervista: le domande hanno fatto da sfondo, senza restringerla in parametri predefiniti e rigidi. Anche linguisticamente abbiamo attraversato fluidamente l’italiano e lo spagnolo, senza percepire di volta in volta i passaggi. Non c’è stato nulla di meccanico, e le risposte sono nate nel dialogo e all’interno di un ragionamento che qui ho cercato di rendere, in maniera sintetica, così come ho potuto.

Antonio Spadaro S.I. - Civiltà Cattolica

lunedì 9 settembre 2013

Osservatore Romano 08/09/2013


Una responsabilità comune

2013-09-08 L’Osservatore Romano
Invitando a pregare per la pace Papa Francesco realizza più che mai la missione del successore di Pietro, così evidente nei Pontefici del Novecento, come profeti e missionari di pace. Da san Pio X stroncato dalla prima guerra mondiale all’appello di Benedetto XV di fronte all’«inutile strage». Dalle encicliche di Pio XI contro le dittature foriere di guerre a Pio XII che alla vigilia della seconda guerra mondiale grida «nulla è perduto con la pace». Da Giovanni XXIII durante la crisi di Cuba e con la Pacem in terris a Paolo VI con la Populorum progressio (il nuovo nome della pace è lo sviluppo dei popoli). Da Giovanni Paolo II con la Sollicitudo rei socialis (pace è solidarietà) e le insistenze perché non si giungesse alle guerre in Medio oriente, fino a Benedetto XVI che, nella Caritas in veritate propone la non violenza attiva, questa missione del Papa diventa sempre più incisiva.
Il Pontefice ripete oggi un forte appello alla pace, scongiurando di rinunciare all’intervento armato in Siria, sollecitando le forze politiche e i Governi perché col dialogo e con i negoziati si ottenga la fine della violenza che sconvolge quel Paese e minaccia di estendersi. La passione con cui Papa Francesco vive questo momento drammatico e lo spinge a cercare tutte le strade per salvare la pace è testimonianza evangelica, testimonianza che impegna tutta la Chiesa e ogni fedele a farsene promotore. Lo stesso Gandhi, tradizionale patrocinatore della non violenza attiva, affermava di averla appresa pure dal vangelo.
L’appello di Papa Francesco ha trovato nel mondo un ampio riscontro anche al di fuori della Chiesa cattolica, perché giunge alla parte più profonda delle coscienze umane e al realismo delle persone più attente, richiamando la responsabilità di tutti nel cammino verso la pace. Questo aspetto viene ancora più confermato dall’invito rivolto a tutta la Chiesa — e condiviso da molte altre comunità religiose — a una preghiera collettiva, accompagnata dal digiuno, per invocare da Dio il dono della pace.
L’invito ricorda che la pace è dono di Dio «agli uomini, che egli ama» (Luca, 2,14): va quindi richiesta e, accolta con cuore libero, deve sollecitare impegni concreti. Ma prima ancora questo invito alla preghiera è un grande atto di fede. Gesù ha detto: «Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Matteo, 18, 19-20). Papa Francesco crede molto nella preghiera, e per questo, fin dal primo incontro con il mondo dalla loggia di San Pietro, ha chiesto a tutti di pregare per lui. E ora è tutta la Chiesa, tutto il mondo che chiede la pace.
La proposta del digiuno — esperienza vissuta nel-l’ambito religioso, ma anche al di fuori di esso — implica che ciascuno deve sentirsi coinvolto nel cammino della pace, che ciascuno deve rinunciare a qualcosa, alle proprie chiusure, ai progetti di benessere e di potere ottenuti con lo sfruttamento e l’oppressione di altri esseri umani, perché la pace nel mondo comincia dalla pace nel cuore e nella vita di ciascuno di noi.
Questo crescente consenso e questo impegno comune sono già una globalizzazione di solidarietà e di fraternità, oltre che motivo di fiducia. Così la giornata di preghiera e di digiuno diviene — per l’ispirazione di Papa Francesco — un momento importante per ogni persona umana e una tappa di speranza per la pace in Siria e in tutto il mondo.

Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea
 
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Il bene di tutti

2013-09-08 L’Osservatore Romano
«La pace è un bene che supera ogni barriera, perché è un bene di tutta l’umanità». Pur nella sua estrema sinteticità, il tweet di Papa Francesco — con il quale ha ribadito l’invito a tutti gli uomini di buona volontà ad aderire al suo appello per la pace in Siria — è riuscito a cogliere un elemento decisivo di questo delicatissimo momento storico: la pace è un bene comune che oltrepassa ogni frontiera nazionale, che supera qualsiasi differenza etnica o religiosa e che lega, inesorabilmente, il destino del mondo a quello inalienabile della dignità umana.
L’enciclica «Pacem in terris» sulla prima pagina de «L’Osservatore Romano» (edizione dell’11 aprile 1963)L’appello «accorato» di Francesco si fa dunque interprete — come ha evidenziato l’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario della Segreteria di Stato per i Rapporti con gli Stati durante l’incontro con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede — «del desiderio di pace che sale da ogni parte della terra» e richiama alla mente altri famosi appelli per la pace che si sono succeduti lungo il corso del XX secolo: dalla celebre Nota ai belligeranti del 1917 con cui Benedetto XV definì la prima guerra mondiale come «un’inutile strage», ai «presupposti essenziali di un ordine internazionale» enunciati da Pio XII nel radiomessaggio di Natale del 1942; dalla «pace del cuore» come presupposto fondamentale per la «pace tra i popoli» evocato da Paolo VI nel 1967, agli innumerevoli interventi sulla «pace a ogni costo» di Giovanni Paolo II, esemplarmente sintetizzati nella Giornata di Assisi del 27 ottobre 1986.
Più di ogni altro precedente storico, però, questa vigorosa sollecitazione di Francesco sembra evocare l’opera e la figura di un altro straordinario pontefice del Novecento: quella di Giovanni XXIII, grazie al quale la «teologia della pace» mutò radicalmente di segno e, soprattutto con la pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris, assunse un significato universale, valido per tutto il mondo e per ogni popolo della Terra.
Quest’incontro ideale tra Giovanni XXIII e Francesco nel comune sforzo per la pace — al di là delle ovvie differenze che si possono rimarcare tra la stesura di un’enciclica e la redazione di una lettera ai leader del g20 — avviene su un elemento estremamente importante che non solo collega l’opera di questi due Papi ma fornisce un significato profondissimo al pontificato attuale. È nell’eredità e nella piena attuazione del concilio Vaticano II che si incontrano i due vescovi di Roma: Giovanni XXIII e Francesco. Nell’arco di cinquant’anni, quell’assise non solo non ha finito di dare i suoi frutti ma necessita ancora di una piena comprensione nel segno della comunione e dell’unità della Chiesa. La surrettizia banalizzazione tra il concilio “dei media” e quello “dei padri”, come ha sapientemente messo in evidenza Benedetto XVI, sembra oggi venire meno in nome di una Chiesa che non vuole essere autoreferenziale ma sempre più missionaria.

Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia - Città della Pieve
 
 
 

mercoledì 26 giugno 2013

Bravo Beppe!


Beppe. Il primo Cavaliere dei barboni.
Corriere Fiorentino 12/06/2013
http://www.comune.scandicci.fi.it/rassegne/bancadati/20130612/SIL3018.PDF


Casale Sig. Giuseppe

Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana

insegna
Luogo di nascita: Firenze (FI)
Data del conferimento: 27/12/2012
Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri

http://www.quirinale.it/elementi/DettaglioOnorificenze.aspx?decorato=324571



martedì 16 aprile 2013

Trogir (Croazia). Firmato memorandum per costituzione GEIE

da  http://trogirportal.info/trogir/hrvatska/potpisan-memorandum-o-suradnji-grada-trogira-i-talijanskih-gradova-clanica


Il funzionario del Parlamento Ue Paolo Meucci, insieme con i colleghi provenienti dall'Italia, il 13 ° Aprile a Trogir.
La ragione della loro visita è stata la firma del memorandum di cooperazione tra Trogir e alcuni comuni italiani.

  Nel municipio di Trogir, è stato firmato il documento dal Sindaco della città di Trogir, Damir Rilje, dai sindaci e vice sindaci dei comuni di Bagno di Romagna, Civitella di Romagna, Santa Sofia, Premilcuore, Predappio dalla provincia di Forlì-Cesena, dal parco Foreste Casentinesi, dall'l'Unione delle cooperative e dalla cooperativa non-profit "Fare del Bene".
L'accordo di cooperazione sarà, come sottolineato da Paolo Meucci, basato sullo sviluppo delle attività economiche nella regione è in vista di progetti di applicazione congiunta di fondi UE, con l'obiettivo di istituire un gruppo di interesse economico europeo (GEIE), tra la città di Trogir e gli altri firmatari.
Grazie al comune interesse, dice Meucci, i firmatari del presente documento sono tenuti a sviluppare una forte cooperazione nei settori dell'economia, della cultura e del turismo. Di conseguenza, dopo che la Croazia sarà diventata membro a pieno titolo dell'UE, non appena possibile, sarà istituito un GEIE, il cui obiettivo principale è quello di promuovere la cooperazione con progetti UE.
Con questo memorandum è venuto su iniziativa del Sig. Meucci, che non solo è un funzionario del Parlamento UE, ma anche il direttore delle competenti direzioni della Commissione europea per le relazioni con i parlamenti dei paesi europei, ha detto il sindaco Damir Rilje.
Mi piace dire che Trogir è in realtà già nella UE, dice Rilje, perché noi in realtà facciamo tutto il lavoro preliminare in ordine dal primo Luglio potrebbe facilmente e rapidamente firmare contratti, il che significa più facilità per avvicinare gli investitori e facilitare l'utilizzo dei fondi comunitari, così come lo scambio di progetti nel campo di coloro che sono firmatari del gruppo. 
Autore: www.trogir.hr

martedì 26 marzo 2013

Morto a Firenze don Renzo Rossi: una vita accanto ai più poveri

Morto a Firenze don Renzo Rossi: una vita accanto ai più poveri

E' morto questa mattina al Convitto Ecclesiastico di Firenze, don Renzo Rossi, 88 anni, uno dei sacerdoti più conosciuti della diocesi, a lungo missionario fidei donum a Salvador Bahia. I funerali saranno celebrati mercoledì 27 marzo, alle 10, nella basilica di San Lorenzo, a Firenze. «Ho trovato in lui il prete più gioioso e più obbediente della diocesi», ha dichiarato il card. Giuseppe Betori.





E' morto questa mattina al Convitto Ecclesiastico di Firenze, don Renzo Rossi, uno dei sacerdoti più conosciuti della diocesi, il «prete dei poveri». Nato nel centro di Firenze nel 1925, in seminario aveva conosciuto don Lorenzo Milani di cui divenne amico. Dopo una lunga esperienza a fianco degli operai nelle fabbriche della città, tra gli anni '60 e '70, chiese e ottenne di aprire la missione fiorentina a Salvador de Bahia, in Brasile, di cui è cittadino onorario.
Per quasi 20 anni fece servizio nel paese sudamericano dedicandosi in particolare al servizio nelle carceri, primo sacerdote ad entrare nelle celle brasiliane, soprattutto a fianco dei detenuti politici. Tornato in Italia è vissuto per brevi periodi anche in Africa, in Asia, in India, «tra i poveri, accanto a loro», diceva sempre quando raccontava la sua vita ai giovani. Da qualche anno non aveva una parrocchia ma era a servizio della diocesi e del vescovo. L'arcivescovo Giuseppe Betori, nell'ottobre 2009 quando venne allontanato don Alessandro Santoro, lo mandò per 5 mesi alle Piagge.
«Ho trovato in lui il prete più gioioso e più obbediente della diocesi», ha dichiarato all'ANSA l'arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori. L'arcivescovo non ha voluto aggiungere altro rimandando, come avviene per ogni sacerdote, all'omelia che pronuncerà in occasione dei funerali fissati per mercoledì prossimo, alle 10, nella basilica di San Lorenzo. Dalle 9 di domani, invece, la salma di don Rossi, che lo scorso anno aveva ricevuto anche il Fiorino d'oro dal Comune di Firenze, sarà esposta nella cappella delle Stimmate di San Lorenzo. Sempre in San Lorenzo, martedì 26 marzo, alle 21, momento di preghiera. I familiari e gli amici ringraziano in particolare Flavio Senici, Stefano Fumagalli, Giancarlo Bartolini e tutto il personale del Convitto ecclesiastico per l'assistenza prestata a don Renzo.
Su don Renzo Rossi, pubblichiamo questo ricordo di Mario Bertini.
«Fino a qualche mese fa dicevo che ero vecchio e mi sentivo giovane, ora dico che sono vecchio e mi sento vecchio, ma sono sereno e accetto la volontà di Dio».
Ai moltissimi amici che, in quest’ultimo mese, gli hanno fatto visita, don Renzo Rossi  ha ripetuto questa battuta, come sintesi di accettazione di un male che non perdona, ma anche con quel dolcissimo, fanciullesco sorriso che lo ha accompagnato per tutta la vita ed anche nei suoi ultimissimi giorni.
«Vedi - mi disse giovedì scorso - sapessi come è bello pregare offrendo tutto noi stessi, la nostra vita, invece di raccomandarsi alla Madonna per guarire... Bisogna andare a Lourdes o a Fatima per offrire i nostri dolori, non per chiedere di evitarli... Per me ora è giunto questo passaggio e lo vivo serenamente...».
Con questo stato d’animo, all’inizio della sua ultima Settimana Santa, don Renzo è volato al cielo e, ieri mattina, quando gli accostai al petto un ramoscello d’ulivo appena benedetto, lo strinse tra le mani con la delicatezza di un bambino. Ma la sua accettazione del male, per la naturale perdita di energia, non è mai stata per lui un abbandono del servizio sacerdotale, anzi, l’ultimo 31 di gennaio - meno di due mesi fa - pur essendo già abbastanza debilitato, dopo aver partecipato nella Pieve di Rifredi all’annuale celebrazione per il giorno onomastico di don Facibeni, si spostò velocemente presso la Comunità di Legnaia per animare un serata in onore di don Lorenzo Milani.
E una decina di giorni dopo, a Lastra a Signa, volle addirittura presiedere un’altra Liturgia per il ricordo decennale della morte del suo grande amico don Alfredo Nesi.
Questo per dire che don Renzo è sempre stato - e lo fu per tutta la vita - un prete attivo e in pieno servizio; una sorta di battitore libero, sempre pronto a scendere in campo in qualunque momento; una riserva di lusso nella panchina della Diocesi il quale, negli ultimi anni, non ebbe nessuna difficoltà a sostituire, per tempi abbastanza lunghi, prima don Santoro alle Piagge e successivamente don Luciano a Pontassieve.
Un ultimo periodo - e un ultimo mese - quindi, intenso anche di impegni come servitore di una Chiesa alla quale ha sempre voluto bene, obbedendo, seppur con l’animata dinamica del suo carattere, a ben sei Arcivescovi.
E perfino l’altra settimana, pur essendo abbastanza in crisi, cercò fino all’ultima ora di essere presente, in San Frediano, per la presentazione di un volume dedicato alle lettere che gli scriveva il suo amico - un po’ speciale - Giorgio Falossi. Non ce la fece, ma non si risparmiò a voler essere presente alla serata rilasciando una breve intervista che, a suo nome, fu fatta ascoltare agli intervenuti.
Chiudo questo breve ricordo citando una chiacchierata con lui degli ultimi giorni, quando gli chiesi il permesso per potergli appioppare una definizione:
- Vedi, don Renzo, io a forza di praticare, e a volte anche di scrivere, di certi preti ho sempre cercato di affiancarli ad un attributo: don Facibeni, il santo; don Carlo Zaccaro, la fantasia dell’amore; don Nesi il catto-comunista... per te, se ti va, ti chiamerei il prete tridimensionale....
– Mi piace, ma dimmi prima il perché....
- Perché dapprincipio facevi - e a volte lo fai ancora - il parroco e quindi il prete diocesano... poi hai fatto, per tanti anni il prete di fabbrica alla Fonderia delle Cure e all’Italgas... e, infine, la terza dimensione del prete missionario in Brasile...
- Va bene, mi piace, - e dopo aver fatto un bella risata - hai molta fantasia, ma resti un bischeraccio... .

Don Renzo Rossi con alcuni bambini in Brasile
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VEDI ANCHE
 http://www.lanazione.it/firenze/cronaca/2013/03/25/863957-morto-don-renzo-rossi-prete-poveri-firenze-brasile.shtml

 http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/2013/25-marzo-2013/muore-don-renzo-rossi-prete-poveri-212328701403.shtml

 http://firenze.repubblica.it/cronaca/2013/03/25/news/morto_don_renzo_rossi_il_prete_dei_poveri-55301284/


 http://www.youtube.com/watch?v=AHae76UkMOI

sabato 16 febbraio 2013

Al concilio pieno di entusiasmo e speranza

da: http://www.osservatoreromano.va

L’esperienza del Vaticano II raccontata da Benedetto XVI durante il tradizionale incontro con il clero di Roma per l’inizio della Quaresima


Al concilio pieno di entusiasmo e speranza



L’esperienza vissuta durante il concilio Vaticano II è stata raccontata da Benedetto XVI ai parroci e ai sacerdoti della diocesi di Roma, ricevuti in udienza giovedì mattina, 14 febbraio, nell’Aula Paolo VI.


Eminenza,
cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!
È per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. È sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. È un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.
Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore ha detto: «A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa» (cfr. Mt 16, 18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: «Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo» (cfr. Mt 16, 15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito — l’ho detto mercoledì — quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.
Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova — mi sembra nel ’61 — aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno.
Il Cardinale mi ha invitato — il più giovane dei professori — a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: «Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito». Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: «Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole». Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo — mi pare nel novembre ’62 — sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.
Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse — non so se sia vero — che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.
Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo — si cercava — imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.
Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al «Collegio dell’Anima», dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida — naturalmente — del Successore di Pietro.
Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta «alleanza renana». E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice — apparentemente semplice — intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.
Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse «Et cum spiritu tuo» eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. «Operi Dei nihil praeponatur»: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr. 43, 3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia — anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna — non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio — se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.
Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano i era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato — che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente — era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano i, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: «Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa», e un vescovo protestante parlava del «secolo della Chiesa». Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano i, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale — anche questo —, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano i.
Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era completamente sotto questo segno della parola «Mystici Corporis». Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero «noi» dei credenti, insieme con l’«Io» di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non «un noi», un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo «noi siamo Chiesa» esige proprio il mio inserimento nel grande «noi» dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola «collegialità», molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola — forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa — per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.
Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: «mistico» sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di «Popolo di Dio». E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola «Laos tou Theou», corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa — mi sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, «goim», del mondo, sono «il» Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto «Popolo di Dio» implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.
Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario — che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo —, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa.
Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ — diciamo — in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ «handicappati» dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza.
Qui, la battaglia — come ho detto — era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula «non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura», cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte.
Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie — diciamo — alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui — come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr. vol. i) — c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.
E, infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio — soprattutto dopo le «passioni» dei cristiani nel tempo del nazismo — che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’«alleanza renana» — per così dire — aveva fatto il suo lavoro.
La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi — devo dire — all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento «Gaudium et spes» ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la «Nostra aetate». Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi — i Vescovi dei Paesi arabi — non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.
Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo... E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.
Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e «Nostra aetate», connessi con «Gaudium et spes» sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.
Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri — il vero Concilio —, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio — come ho detto — si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola «Popolo di Dio», il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.
Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata... e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!

lunedì 10 dicembre 2012

Addio a don Sciarra prete missionario vicino agli oppressi

da  http://ilcentro.gelocal.it/laquila/cronaca/2012/12/09/news/addio-a-don-sciarra-prete-missionario-vicino-agli-oppressi-1.6171637

di Nino Motta
AVEZZANO. Marsica in lutto per la morte di don Antonio Sciarra, da 20 anni missionario in Albania. Il sacerdote si è spento ieri all'alba all'ospedale di Avezzano. Aveva 75 anni. Gli erano accanto due collaboratori, Alexander Palushaj, albanese, e Renato Cucchiarelli di Avezzano, che in tutti questi anni lo hanno aiutato nell'opera missionaria. «Per noi albanesi», testimonia Palushaj, «don Antonio è un santo. Quello che lui ha fatto per l'Albania, non lo aveva mai fatto nessuno. La sua non è stata solo un'opera di evangelizzazione, ma anche di promozione culturale e sociale del popolo albanese». E ricorda alcune delle iniziative, come l'ulivicoltura e l'artigianato, promosse da don Antonio per creare lavoro e impedire così a tanti albanesi di lasciare il loro paese. Era anche un sacerdote coraggioso, don Antonio. «Nel 1997, allo scoppio della guerra civile», ricorda Renato Cucchiarelli, «tutti i sacerdoti, su invito del papa, hanno lasciato l'Albania, per motivi di sicurezza. È rimasto solo don Antonio. Incurante dei rischi cui andava incontro, si muoveva in lungo e in largo per soccorrere i feriti e aiutare chi aveva bisogno. Cento bambini, gravemente feriti, grazie all'interessamento di don Antonio, sono stati trasportati in ospedali italiani e guariti». Dopo la guerra, durata due anni, don Antonio, con i bossoli, ha fatto costruire la "Campana della Pace", portata in giro sia in Albania che in Italia. Un messaggio di dura condanna della guerra e di speranza in un mondo di pace e di fratellanza tra i popoli. Una speranza vana, purtroppo, se nel 1999, la missione di Blinisht, si è trovata ad accogliere oltre 1.300 profughi del Kossovo, dilaniato dalla guerra. Sono anni in cui don Antonio, «spirito generoso, esuberante e creativo», come lo ha definito il vicario del vescovo di Avezzano, monsignor Domenico Ramelli, si prodiga ad aiutare, oltre alla popolazione locale, anche gli albanesi emigrati in Italia. Per facilitarne l'integrazione si inventa la Rindertimi, associazione italo-albanese, con sede ad Avezzano, presieduta dal nipote, Gino Milano, oggi consigliere regionale. Al tempo stesso promuove campagne, come ad esempio la vendita di patate offerte dagli agricoltori del Fucino, per raccogliere fondi da destinare alla missione di Blinisht. L'ultimo suo sogno, una struttura per il recupero dei tossicodipendenti, presto diventerà realtà. Don Antonio ha dato anche all'Albania la possibilità di onorare uno dei suoi figli più illustri: San Pelino. In Italia al santo sono dedicate la cattedrale di Brindisi, la diocesi di Sulmona-Valva e la basilica di Corfinio, mentre nella Marsica un intero paese porta il suo nome. In Albania invece era uno sconosciuto. Finché don Antonio, spulciando tra le carte, non ha scoperto l'origine albanese del santo. E dallo scorso anno San Pelino è venerato nella chiesa dei Martiri albanesi a Blinisht. Il governo albanese, come segno di gratitudine per quello che don Antonio ha fatto per questo Paese, lo ha insignito della massima onorificenza, che porta il nome di Maria Teresa di Calcutta. I funerali oggi alle 14.30 in cattedrale. La funzione sarà presieduta dal vescovo, monsignor Pietro Santoro. Dopo le esequie, la salma sarà trasportata in Albania, dove sarà tumulata, come era desiderio di don Antonio, davanti alla chiesa di Blinisht.
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Santa Messa per i 10 anni dalla morte di don Carlo Zaccaro

22 Maggio alle ore 18 nella Chiesa di San Michelino Visdomini in via dei Servi a Firenze. Santa Messa per i 10 anni dalla morte di don Car...