lunedì 9 settembre 2013

Osservatore Romano 08/09/2013


Una responsabilità comune

2013-09-08 L’Osservatore Romano
Invitando a pregare per la pace Papa Francesco realizza più che mai la missione del successore di Pietro, così evidente nei Pontefici del Novecento, come profeti e missionari di pace. Da san Pio X stroncato dalla prima guerra mondiale all’appello di Benedetto XV di fronte all’«inutile strage». Dalle encicliche di Pio XI contro le dittature foriere di guerre a Pio XII che alla vigilia della seconda guerra mondiale grida «nulla è perduto con la pace». Da Giovanni XXIII durante la crisi di Cuba e con la Pacem in terris a Paolo VI con la Populorum progressio (il nuovo nome della pace è lo sviluppo dei popoli). Da Giovanni Paolo II con la Sollicitudo rei socialis (pace è solidarietà) e le insistenze perché non si giungesse alle guerre in Medio oriente, fino a Benedetto XVI che, nella Caritas in veritate propone la non violenza attiva, questa missione del Papa diventa sempre più incisiva.
Il Pontefice ripete oggi un forte appello alla pace, scongiurando di rinunciare all’intervento armato in Siria, sollecitando le forze politiche e i Governi perché col dialogo e con i negoziati si ottenga la fine della violenza che sconvolge quel Paese e minaccia di estendersi. La passione con cui Papa Francesco vive questo momento drammatico e lo spinge a cercare tutte le strade per salvare la pace è testimonianza evangelica, testimonianza che impegna tutta la Chiesa e ogni fedele a farsene promotore. Lo stesso Gandhi, tradizionale patrocinatore della non violenza attiva, affermava di averla appresa pure dal vangelo.
L’appello di Papa Francesco ha trovato nel mondo un ampio riscontro anche al di fuori della Chiesa cattolica, perché giunge alla parte più profonda delle coscienze umane e al realismo delle persone più attente, richiamando la responsabilità di tutti nel cammino verso la pace. Questo aspetto viene ancora più confermato dall’invito rivolto a tutta la Chiesa — e condiviso da molte altre comunità religiose — a una preghiera collettiva, accompagnata dal digiuno, per invocare da Dio il dono della pace.
L’invito ricorda che la pace è dono di Dio «agli uomini, che egli ama» (Luca, 2,14): va quindi richiesta e, accolta con cuore libero, deve sollecitare impegni concreti. Ma prima ancora questo invito alla preghiera è un grande atto di fede. Gesù ha detto: «Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Matteo, 18, 19-20). Papa Francesco crede molto nella preghiera, e per questo, fin dal primo incontro con il mondo dalla loggia di San Pietro, ha chiesto a tutti di pregare per lui. E ora è tutta la Chiesa, tutto il mondo che chiede la pace.
La proposta del digiuno — esperienza vissuta nel-l’ambito religioso, ma anche al di fuori di esso — implica che ciascuno deve sentirsi coinvolto nel cammino della pace, che ciascuno deve rinunciare a qualcosa, alle proprie chiusure, ai progetti di benessere e di potere ottenuti con lo sfruttamento e l’oppressione di altri esseri umani, perché la pace nel mondo comincia dalla pace nel cuore e nella vita di ciascuno di noi.
Questo crescente consenso e questo impegno comune sono già una globalizzazione di solidarietà e di fraternità, oltre che motivo di fiducia. Così la giornata di preghiera e di digiuno diviene — per l’ispirazione di Papa Francesco — un momento importante per ogni persona umana e una tappa di speranza per la pace in Siria e in tutto il mondo.

Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea
 
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Il bene di tutti

2013-09-08 L’Osservatore Romano
«La pace è un bene che supera ogni barriera, perché è un bene di tutta l’umanità». Pur nella sua estrema sinteticità, il tweet di Papa Francesco — con il quale ha ribadito l’invito a tutti gli uomini di buona volontà ad aderire al suo appello per la pace in Siria — è riuscito a cogliere un elemento decisivo di questo delicatissimo momento storico: la pace è un bene comune che oltrepassa ogni frontiera nazionale, che supera qualsiasi differenza etnica o religiosa e che lega, inesorabilmente, il destino del mondo a quello inalienabile della dignità umana.
L’enciclica «Pacem in terris» sulla prima pagina de «L’Osservatore Romano» (edizione dell’11 aprile 1963)L’appello «accorato» di Francesco si fa dunque interprete — come ha evidenziato l’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario della Segreteria di Stato per i Rapporti con gli Stati durante l’incontro con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede — «del desiderio di pace che sale da ogni parte della terra» e richiama alla mente altri famosi appelli per la pace che si sono succeduti lungo il corso del XX secolo: dalla celebre Nota ai belligeranti del 1917 con cui Benedetto XV definì la prima guerra mondiale come «un’inutile strage», ai «presupposti essenziali di un ordine internazionale» enunciati da Pio XII nel radiomessaggio di Natale del 1942; dalla «pace del cuore» come presupposto fondamentale per la «pace tra i popoli» evocato da Paolo VI nel 1967, agli innumerevoli interventi sulla «pace a ogni costo» di Giovanni Paolo II, esemplarmente sintetizzati nella Giornata di Assisi del 27 ottobre 1986.
Più di ogni altro precedente storico, però, questa vigorosa sollecitazione di Francesco sembra evocare l’opera e la figura di un altro straordinario pontefice del Novecento: quella di Giovanni XXIII, grazie al quale la «teologia della pace» mutò radicalmente di segno e, soprattutto con la pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris, assunse un significato universale, valido per tutto il mondo e per ogni popolo della Terra.
Quest’incontro ideale tra Giovanni XXIII e Francesco nel comune sforzo per la pace — al di là delle ovvie differenze che si possono rimarcare tra la stesura di un’enciclica e la redazione di una lettera ai leader del g20 — avviene su un elemento estremamente importante che non solo collega l’opera di questi due Papi ma fornisce un significato profondissimo al pontificato attuale. È nell’eredità e nella piena attuazione del concilio Vaticano II che si incontrano i due vescovi di Roma: Giovanni XXIII e Francesco. Nell’arco di cinquant’anni, quell’assise non solo non ha finito di dare i suoi frutti ma necessita ancora di una piena comprensione nel segno della comunione e dell’unità della Chiesa. La surrettizia banalizzazione tra il concilio “dei media” e quello “dei padri”, come ha sapientemente messo in evidenza Benedetto XVI, sembra oggi venire meno in nome di una Chiesa che non vuole essere autoreferenziale ma sempre più missionaria.

Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia - Città della Pieve
 
 
 

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