giovedì 4 maggio 2006

L'OSSERVATORE TOSCANO 4 maggio 2006































L'OSSERVATORE TOSCANO DEL 4 MAGGIO 2006

Un mese di iniziative: così Firenze ricorda il “Padre”


CARLO ZACCARO


Ci possiamo domandare, a cinquant'anni dalla morte del servo di Dio don Giulio Fac ibeni, quale sia stata la profezia di questo figlio della Chiesa che tutti i fiorentini, indistintamente, hanno finito per chiamare «padre».

IL DONO DELLA GIOIA
Bisogna premettere che l'esistenza terrena i questo sacerdote si è svolta tra due secoli: nato il 29 luglio 1884 a Galeata è morto a Firenze il 2 luglio 1958. Ognuno di noi può facilmente comprendere che non di due secoli si tratta, ma di due epoche tra di loro lontanìssime per gli straordinari cambiamenti avvenuti, dettati da un vertiginoso progresso tecnologico abbattutosi con violenza sulla nostra pigra quotidianità. Nell'arco di tempo della sua vita è stato a fianco dei suoi «soldatini» durante le cruenti battaglie sui monti del Grappa e del Pertica nella disperata difesa della pianura veneta minacciata di invasione degli austriaci. Ha assistito alla crudeltà degli assalti alla baionetta, ha raccolto le implorazioni dei suoi fanti che sul punto di morte gli raccomandavano i loro figli. Il giuramento del cappellano fu che di questi orfani lui sarebbe diventato il padre. E stato angustiato spettatore della fine del secondo conflitto mondiale, ottenuta con il lancio della bomba atomica devastatrice di una intera città nell'apocalittico agosto del '44. Giovanilmente entusiasta, anche per merito della forte personalità dello Scolopio padre Giovannozzi, dei prodromi della riconciliazione tra Stato e Chiesa avviati da Pio X, ha sofferto per il concordato del '29, giudicandolo subito per quel che era: un falso ossequio del regime fascista alla Chiesa, per meglio celare al popolo italiano le effettive mire di soppressione della libertà. Quando l'ho conosciuto, mandato con Corso Guicciardini a trovarlo dietro istigazione di don Bensi, era già curvo non solo sotto il peso di dover provvedere in tempo di guerra il cibo a centinaia di orfani - si era tra il '43 e '44 - ma anche per la responsabilità non condivisa con alcuno, di salvare la vita ai perseguitati dalla demoniaca barbarie del nazismo, giovani ebrei nascosti e confusi con i nostri orfani. Di tutto si sentiva padre. Ma la patemità per lui significava un amore che ci precede, un amore gratuito, un amore che diventa servizio senza parentesi, una autorità che si fa piena, assoluta, immediata disponibilità, una forte capacità di lasciarsi espropriare dall'altro con gioia. Non posso rinunciare a citare un pensiero di Giampaolo Meucci, l'indimenticabile presidente del Tribunale per i minori di Firenze: «Don Facibeni passa nella nostra vita con il dono della sua gioia. La si avverte luminosa, totale, come totale è la sua pietà ed il suo dono di amore. È una creatura che ha scoperto che l'unico grande sogno dell'uomo che non lo annienti è il sogno di ima gioia donata a larghe mani».

INTUIZIONE PROFETICA
Detto questo, si può tentare di dare una prima risposta alla domanda posta all'inizio. La profezia di don Facibeni e costituita dall'annuncio, in tempi ancora lontani dal Concilio, di una nuova linea pastorale nella quale il sacerdote diventa il testimone della patemità di Dio e lui stesso padre. La figura del sacerdote diocesano, come balza con vigore esemplare dalla vita, dalle opere, dagli scritti di don Facibeni, non ha bisogno di chiedere, anche se desiderato nei momenti di sfinitezza fisica, un supplemento di spiritualità dalla famiglia religiosa Domenicana e di cui era anche terziario o quella Cannelitana che tanto stimava. Egli realizzava il munus apostolicum del sacerdote secondo il Vangelo, rimanendo immerso nelle attese e nei bisogni della povera gente e nella speranza missionaria di salvezza della nostra Santa Chiesa. In una comunità presbiterale missionaria, don Facibeni ha cercato anticipando di anni, lo slancio e la franchezza per l'evangelizzazione dei più poveri in una fedele lettura dei segni dei tempi. E stata certamente la fatica più grande di don Facibeni quella di raccogliere negli ultimi anni della sua vita emettere insieme, aiutato dalla provvida amicizia di mons. Enrico Bartoletti, un gruppo di sacerdoti che in questo loro riunirsi, trovassero la forza di una spiritualità sacerdotale, ecclesiale e missionaria, pronta ad impegnarsi «nei luoghi dove si lavora e si soffre» (Pio XII), assumendo i doveri e gli uffici che il vescovo avrebbe potuto loro affidare, pronti a ritirarsi se altri al loro posto potevano fare meglio. Questa disponibilità ha trovato negli anni immediatamente successivi alla morte del padre conferme, anche se non esaustive, con la Corea di Livomo dove l'Opera fu chiamata da Mons. Guano, con Scandicci e con Empoli dove l'Opera fu richiesta dal Cardinale Florit e con le attuali missioni di Guadalajara in Brasile e di Scutari in Albania.

UNA FEDE ABRAMITICA
Da dove don Facibeni traeva questa sua forza, da quale certezza veniva il suo sommesso e sofferto Deo gratias in ogni circostanza della sua vita? Certo la pazienza del padre era quella di chi ama e come ben ci spiega il nostro Stefano Tarocchi (La pazienza di chi ama, Piemme) «l'essere pazienti non e atteggiamento da deboli né da rassegnati, bensì da uomini che sanno quello che vogliono e lo attendono nella speranza», Puntualmente il padre ci ha lasciato detto: «non mi sono mai pentito di aver avuto pazienza». Bisogna risalire alle prime pagine della Bibbia per capire lo spessore e la profondità della fede di don Facibeni quando Dio, che prova i suoi amici, chiede ad Abramo: «prendi tuo figlio e offrilo in olocausto sopra quel monte che io ti mostrerò». L'episodio vuol significare non solo che dovevano cessare i sacrifici umani, ma che il Signore provvede. Per questo Abramo da un senso al racconto chiamando quel monte: monte della provvidenza di Dio. Da Abramo a don Facibeni, a Giorgio La Pira, a Giovanni Paolo II, a Madre Teresa, in tutti gli amici di Dio c'è questa costante: la fede diventa anticipata visione e la beatitudine della punta consente loro di vedere l'azione di Dio nel quotidiano come nei tomanti della storia. «Alla Provvidenza non ci credo, la vedo», rispondeva il padre ad una domanda provocatoria di un frate che gli chiedeva se alla provvidenza ci credesse o no. Proprio perché le opere gli crescevano nelle mani, non per una preventiva pianificazione, ma per l'impulso del suo cuore e della sua fede, potevano assumere qualche volta l'aspetto dell'incertezza propria di chi naviga a vista. Nella sua esperienza di Dio, ogni incontro, ogni persona gli si presentava come un appello di Dio a cui rispondere con il dono di una scintilla di quel fuoco acceso nell'illuminato suo animo di apostolo. La vita di don Facibeni è stata una continuata celebrazione della Messa, come ci autorizza a pensare anche la splendida prefazione del Cardinale Antonelli al volume del Cardinal Piovanelli pubblicato in questi giorni. Nel totale dono di se per configurarsi sempre meglio a Cristo, nella sua obbedienza al padre, sta la chiave di volta per capire il segreto facibeniano che potrebbe dischiudersi, ricorrendo alla testimonianza di padre Turoldo. Estasiato dalla folla che si era riversata al funerale di don Facibeni, questo grande poeta italiano ebbe ad esclamare: «ha cancellato la parola orfano». Il pensiero va facilmente alle migliaia di orfani da don Facibeni provveduti di un tetto, di una mensa, di una scuola, di un mestiere, di una professione, di una speranza e soprattutto di uno straordinario rapporto di soprannaturale valenza da padre a figlio.

CREDERE E' FARE GIUSTIZIA
Ma il Padre è stato determinante per l'intera città di Firenze non perché uomo della beneficenza, ma perché uomo di fede che aveva a cuore l'educazione civile, come gli è stato testimoniato da Giorgio la Pira e dall'intelligenza cattolica del tempo. La sua santità costituì l'underground del secondo rinascimento fiorentino, come ci ha illustrato Ettore Bernabei. Don Facibeni umile sterratore, quasi sepolto dalle quotidiane difficoltà economiche che lo costrinsero a firmare grandi quantità di «farfalle» cioè di cambiali, dava forza al canto di speranza e di pace del sindaco Giorgio La Pira, che sostenute dalla trascendente autorità spirituale del Cardinale Dalla Costa, fece di Firenze il centro spirituale del mondo, non lasciando purtroppo eredi, come invece poté fare San Francesco. Don Facibeni che aveva più volte messo a rischio la vita per raccogliere sul Monte Grappa e sul Pertica i corpi dilaniati di italiani e di austriaci a lui ugualmente fratelli nel sangue di Cristo, giocherà di astuzia per ingannare i persecutori nazisti a portare in salvo le vite dei fratelli ebrei. Come ci canta Padre Turoldo in una sua splendida poesia, «credere è ribellarsi, rompere le catene, fare giustizia».


Santa Messa per i 10 anni dalla morte di don Carlo Zaccaro

22 Maggio alle ore 18 nella Chiesa di San Michelino Visdomini in via dei Servi a Firenze. Santa Messa per i 10 anni dalla morte di don Car...